Arvind Narayanan, ricercatore di Computer Science presso l’Università di Princeton, ha recentemente presentato una relazione riguardante il consumo elettrico derivante dalle attività di cryptomining al Senato degli Stati Uniti. I dati raccolti avrebbero permesso di misurare un impegno energentico attualmente pari all’1% a livello mondiale per il solo Bitcoin.
Parliamo nello specifico di ben 5 gigawatt erogati quotidianamente, volendo effettuare un confronto basterebbe pensare che il consumo medio giornaliero di una città particolarmente energivora come New York risulta essere nettamente inferiore. Lo stesso quantitativo sarebbe più che sufficiente a soddisfare il fabbisogno di un’intero stato USA come l’Ohio.
Diverse le ragioni di questi numeri, a cominciare dalla necessità di supportare processi di elaborazione particolarmente complessi, passando per l’operatività continua dei terminali utilizzati e arrivando alle esigenze legate al raffreddamento delle macchine per garantire un elevato livello di prestazioni sempre ottimale.
Ma a parere di Narayanan il vero fattore determinante sarebbe un altro: il prezzo del Bitcoin. Alle frequenti impennate di valore corrisponderebbe infatti un maggior consumo di energia elettrica, nelle stesso modo l’impatto risulterebbe più elevato in corrispondenza di previsioni particolarmente ottimistiche riguardanti le fluttuazioni.
Considerando che per una singola transazione basata sul Bitcoin è richiesto lo stesso quantitativo di energia che permetterebbe di illuminare 10 case statunitensi, con l’attuale andamento otteniamo un consumo annuo pari a circa 30 terawattora, cioè più di quanto necessario per l’alimentazione elettrica in un Paese come l’Irlanda.