Nel corso del 2017 il Parlamento italiano ha emesso un provvedimento per il quale l’applicazione della cosiddetta "cedolare secca" alle locazioni immobiliari si sarebbe dovuta estendere anche agli affitti brevi di abitazioni (case o appartamenti) che non rientrano in un contesto di impresa e non rappresentano quindi un’ attività lavorativa.
Airbnb, una delle società maggiormente coinvolte in questa iniziativa per via del modello di business adottato, aveva contestato fin da subito questa decisione in quanto la cedolare secca comporta una ritenuta alla fonte pari al 21%, rendendo di fatto meno conveniente l’affitto di abitazioni per pochi giorni anche per scopi legati all’accoglienza turistica.
Per questo motivo le controllate Airbnb Ireland e Airbnb Payments avevano deciso di presentare ricorso presso la Corte di Giustizia europea. Ora, a circa 5 anni di distanza dalla decisione del Parlamento, quest’ultima avrebbe confermato la coerenza del provvedimento con le normative vigenti in merito all’interno dei confini dell’Unione Europea.
In sostanza, a parere della Corte, l’imposizione di un obbligo di ritenuta fiscale agli intermediari (e in questo caso ad Airbnb) sarebbe giustificabile tenendo conto che le persone fisiche coinvolte non possono essere facilmente controllate (a differenza di quanto accade con i professionisti) ed è quindi lecito che il Fisco prelevi quando dovuto direttamente alla fonte.
Questa precisazione appare abbastanza importante perché, nonostante l’applicazione della cedolare secca, ad essere assoggettata ad essa non sarebbe comunque Airbnb ma la locazione delle abitazioni che vengono utilizzate per la fornitura del servizio, anche quando esso è reso possibile tramite una piattaforma residente al di fuori dei confini nazionali.